mercoledì 11 dicembre 2013

LA VIA DEI BORGHI.27: La "fase parallela". INTRODUZIONE.



La "fase parallela"

Questo post, Lettore, ancor più del precedente sarà “dietrologico” e fantasioso. Mi perdonerai, spero, ma a volte esprimere le proprie idee è necessario; nasce da una pulsione alla quale è difficile sottrarsi. Come nel caso del post precedente, cercherò di enfatizzare al massimo i fatti e ridurre al minimo le illazioni, ma non ti prometto nulla; l’argomento è stimolante e coinvolgente, e sono così portato a travalicare i limiti dell’oggettività

La mia pretenziosa classificazione ha distinto i borghi rurali essenzialmente in base alle modalità con le quali nascevano, ma ciò ha messo in evidenza anche un altro fenomeno, e cioè quello relativo alla loro struttura ed organizzazione, E sebbene praticamente tutti quelli del ventesimo secolo siano sorti come “città di fondazione”, la spinta che ha portato a crearli è evoluta nel corso del tempo divenendo progressivamente più sistematica ed organizzata, ed a ciò ha corrisposto una maniera diversa di affrontare e cercare di risolvere il problema della ruralizzazione.

Riepilogo qui la mia pretenziosa classificazione in fasi, per ciò che riguarda il ventesimo secolo, cercando di riassumere quanto esposi nel relativo post .

Nella prima fase del ventesimo secolo (quella che, in rapporto all’esistenza delle fasi precedenti ho etichettato come "terza fase")  i villaggi rurali siciliani vennero fondati come villaggi operai. Terminata la loro funzione relativa ai lavori per cui erano stati costruiti, sarebbero stati assegnati a contadini, ed avrebbero compreso abitazioni e servizi. Come era stato sottolineato, ciò non avveniva nell’ambito di una riforma agraria o di una pianificazione; semplicemente, si cercava di riconvertire delle strutture adattandole, genericamente, a villaggio rurale. Il luogo in cui sorgeva il villaggio e le sue dimensioni non erano dettate da esigenze agricole, ma da quelle relative ai lavori da compiere. L’incentivazione a che i contadini andassero ad occupare i villaggi era implicita nell’esistenza del villaggio stesso; poiché c’erano le abitazioni e ci sarebbero stati i servizi, si pensava, o si sperava, che i contadini venissero invogliati a trasferirvisi. L’oggetto di questa fase è il villaggio, non il contadino. Lo sforzo organizzativo è concentrato nella riconversione del villaggio; avvenuta la riconversione, l’operaio lascia il villaggio ed il contadino vi giunge. Di fatto, tale fase fu fallimentare. I villaggi operai che sono tuttora integri ed abitati (Filaga e Sferro) non sono mai andati incontro a quella conversione totale che si sarebbe voluta ottenere, e sono stati, e lo sono ancora, occupati ad altro titolo.

Nella fase successiva, la quarta, quella delle case cantoniere, è invece la persona che deve essere riconvertita, e non il villaggio. Le cantoniere della provincia di Palermo vengono realizzate seguendo un progetto unico, finalizzato all’uso come casa colonica più che come cantoniera. Non c’è niente da convertire negli edifici; il villaggio è già strutturato come villaggio rurale. Sono gli abitanti che devono venire riconvertiti, da cantonieri a contadini. Qui l’attenzione, fallito il progetto della fase precedente,  si sposta dagli edifici alle persone; l’oggetto di questa fase è il (potenziale) contadino. Ma anche qui, non vi è un pianificazione o una riforma alla base di questi tentativi; solo un esperimento. A prescindere dalla riuscita di detti tentativi, il risultato finale non avrebbe dovuto essere dissimile da quello della fase precedente, con la nascita di un nuovo, piccolo centro abitato composto da abitazioni e servizi. Forse le uniche case che per un periodo furono occupate da contadini sono quelle di Fellamonica e Pietralunga (queste ultime lo sono ancora), ma le modalità della presa di possesso non furono certo quelle della transizione da cantonieri a contadini; l’occupazione abusiva anche qui ha sostituito le procedure di assegnazione.
E’ opportuno ribadire, inoltre, come tale fase sia stata un “esperimento” limitato alla provincia di Palermo; tale iniziativa ebbe l’approvazione di Mussolini, che contribuì personalmente a finanziare Bellolampo, ma non venne mai estesa, nemmeno come progetto, all’intera regione

La quinta fase, quella dei borghi ECLS, ha invece dietro una riforma agraria (l”assalto al latifondo”, preceduto dalla “bonifica integrale”), ed una pianificazione; quest’ultima assume la forma della “Città rurale” di Caracciolo. Qui vengono creati i poderi. Vengono trasferiti i contadini. Vengono creati i villaggi rurali in rapporto alle esigenze che emergono dalla pianificazione, e non dalla necessità di lavori di bonifica o stradali. Non si cerca di adattare strutture (terza fase) o persone (quarta fase) che in origine hanno tutt’altri scopi, all’agricoltura; si tenta di adattare l’intera società facendola divenire,  per una parte, società rurale. 

Qui compare però una strana anomalia, non presente nelle fasi precedenti, e nemmeno in altre regioni d’Italia: le abitazioni dei contadini non devono essere raggruppate tra loro, e vicine ai servizi, ma devono essere sparse sul territorio. Sebbene si voglia fornire una motivazione razionale di tale organizzazione, l’anomalia appare ancora più strana se si considera che il concetto dell’isolamento dei contadini  è uno dei principi base su cui l’Istituto VEIII basa le sue progettazioni e quindi precede l’inizio “ufficiale” della quinta fase (1940),  mentre la teorizzazione della “Città rurale” ad opera di Caracciolo (1942) lo segue. 
Mangano dichiara, testualmente:"[...] gli uomini, gli animali e le scorte, destinati a vivificare la terra, non debbono vivere lontano da questa, non è neppure sufficiente che vi abitino vicino, ma debbono stabilmente viverci sopra, intimamente ad essa legati. [...] Da escludersi quindi i cosiddetti villaggi agricoli  e le borgate rurali cioà la riunione in gruppi di numerose case coloniche [...] Questi «villaggi», contradicendo in pieno i principi sopra esposti, debbono considerarsi una forma di popolameno contraria ai fini della trasformazione agraria che si vuole conseguire [...]". Sembrerebbe quasi che Caracciolo abbia semplicemente codificato e sistematizzato delle idee che erano preesistenti ,e che avesse in un certo modo fatto proprie.

Nei post precedenti ho velatamente ma reiteratamente espresso l’opinione che ciò fosse l’espressione di una forma di controllo che la classe dirigente siciliana esercitava sui contadini, l’unica forma possibile e sicura dopo l’intervento di Cesare Mori. E la classe dirigente aveva la necessità di esercitare tale controllo soltanto nei casi in cui un altro tipo di controllo, più stretto e condotto con ben altre metodiche, venisse meno: quello che, secolarmente, avevano esercitato i latifondisti. La classe dirigente si sostituiva ai latifondisti o esercitava il controllo per conto di questi, ma avvalendosi dei mezzi di cui lo Stato centrale poteva consentire l’uso. 

Vi è invece un certo numero di centri rurali riguardo ai quali il problema della collocazione degli agricoltori è sembrato non porsi mai. Tali centri sono sorti, o sarebbero dovuti sorgere, in varie parti della Sicilia, ed in vari periodi. Condividono però tutti una caratteristica: l’iniziativa della loro realizzazione non è statale; o, almeno, non solo. E non è un caso che quelli sorti, o quanto meno iniziati, durante il regime siano gli stessi che Samuels classifica come tipo “pubblico-privato”, o la Dufour come “villaggi edificati da privati”. E d’altra parte, le interazioni, dirette o indirette, tra parte pubblica e parte privata potranno già intravedersi nel periodo in cui operava l’Istituto VEIII, per divenire palesi nel dopoguerra

Queste sono illazioni, ma andando avanti in quest’avventura, sia che essa mi conducesse in luoghi sperduti della campagna siciliana, sia tra le polverose carte degli archivi,  si è sempre più rinsaldata in me questa convinzione. Ed è proprio questo l’argomento della fase parallela.


Sempre nel post sulle fasi scrivevo “In tutto questo, si cercò di sfruttare l’iniziativa privata “chiudendo un occhio” prima, e cercando di riaprirlo una volta effettuato il viraggio da iniziative, non sinergiche, volte all’incentivazione dell’agricoltura a pianificazione del relativo progetto”. Queste frasi, che potevano apparire oscure ed ambigue, sottendevano invece un’idea precisa, che cercherò di chiarificare adesso. E lo farò iniziando  dal numero di novembre del 1939 de “le Vie d’Italia”, la rivista della Consociazione Turistica Italiana (in pratica, il Touring Club a cui era stato cambiato il nome per evitare gli inglesismi) su cui era comparso un articolo a firma di  Vincenzo Ullo.




Cosa c’entra Vincenzo Ullo, ti chiederai, Lettore? C’entra; e se non c’entra ce lo faccio entrare, chè mi serve per introdurre l’argomento .

Sebbene molti noti e (più recentemente) dichiarati antifascisti abbiano fatto parte attiva dei GUF (Eugenio Scalfari, Italo Calvino, Giorgio Napolitano, per citarne solo alcuni), Vincenzo Ullo non può certo annoverarsi tra questi.
Vincenzo Ullo ricoprì infatti, per molto tempo, la carica di segretario del GUF di Palermo. Ma soprattutto venne nominato direttore del giornale “l’Ora” quando questo, dopo aver dimostrato la sua opposizione al regime, passò forzatamente sotto la gestione della Federazione Fascista di Palermo.

Vincenzo Ullo era quindi uno strumento del regime, ed il fatto che lo fosse si arguisce facilmente anche dalle frasi usate in sede introduttiva nell’articolo in questione (“La vecchia tradizionale stereotipata Sicilia del latifondo scompare, sepolta dal Fascismo,  per dare origine ad una Sicilia nuova, nelle case e nel costume, negli uomini e nell’economia. […] Il latifondo scompare – dissolto dalla volontà rinnovatrice di un Uomo – e con esso quella parte […]  che aveva fatto nascere la leggenda di una terra povera […]”) , dalle quali traspare chiaramente come la sua preoccupazione fosse fare propaganda più che informazione. Chiaramente, non poteva inventare tutto di sana pianta; ma ritengo che la sua intenzione non fosse quella di scrivere un articolo per potenziali turisti. Sono ragionevolmente certo che non avrà considerato neanche la possibilità che qualcuno, dopo aver letto il suo articolo salisse in auto per andare a visitare i luoghi che descriveva. Figuriamoci allora se avrebbe potuto supporre che qualcuno avrebbe pensato di farlo sessanta anni più tardi.

Perché, Lettore, l’articolo citato è una delle fonti su cui Antonio Pennacchi basò la  parte siciliana  del suo “Viaggio tra le città del Duce”. Nondimeno, l’articolo di Ullo gli permise di visitare diversi luoghi dei quali non conosceva l’esistenza; ma introdusse anche due nuovi interrogativi cui lo scrittore non riuscì a trovare risposta. Il primo riguarda Borgo Littorio. Ullo menziona “Borgo Littorio, nelle vicinanze di Petralia Sottana che ha il vanto di essere sorto per primo” . Come descritto nel post relativo alla terza fase, Borgo Littorio è esistito, ma distante cinquanta chilometri in linea d’aria da Petralia Sottana. Antonio Pennacchi invece lo cercò ripetutamente nel territorio delle Petralie, senza ovviamente trovare nulla. Ma trovò qualcos’altro, e cioè Borgo Pala 




(non Borgo Palo come lo chiama Pennacchi, che pure esiste, ma sta da tutt’altra parte e con tutt’altre finalità – un giorno lontano forse parleremo anche di Borgo Palo), che però definisce “una cosa indecente […] fatta dalla riforma agraria degli anni Cinquanta: pollai di cemento armato che si sgretola appena lo tocchi”.

In effetti, a Borgo Pala vi è un abbeveratoio realizzato nel 1960, ed alcune case con portico o altre strutture in calcestruzzo armato, che secondo quanto contenuto in un Decreto Assessoriale del 1 aprile 1998 (GURS n. 26 del 1988) risulterebberoano ultimate nel 1949, e che Pennacchi definisce "pollai".


Ma, più probabilmente, Pennacchi si riferiva a queste altre



che in realtà non sarebbero vere case, ma “rifugi”, e cioè alloggi che, in linea teorica, avrebbero consentito al contadino, che con la famiglia avrebbe dimorato da tutt’altra parte, di fermarsi nei pressi del podere se la situazione l’avesse richiesto.
 Ma inizialmente, volendo considerare esatta la datazione del 1949, avevo supposto che queste potessero essere precedenti, e cioè che Borgo Pala fosse nato in due tempi, con le case più grandi, del 1949, che andavano ad aggiungersi ad un nucleo preesistente; la supposizione scaturiva anche dalla diversa disposizione che le case sembrano avere. e non solo per dimensioni e struttura, ma perché si trovano nella zona centrale dell’agglomerato



La differente disposizione è riportata anche sulle carte IGM



Inoltre vi sarebbe stata un'ulteriore evidenza del fatto che le case potessero essere state realizzate in due tempi, in quanto esiste un documento, datato 13 agosto 1959, con il quale la Legione Territoriale dei Carabinieri di Palermo chiede all'ERAS l'assegnazione di una delle sei case di proprietà dell'Ente. Poichè le case sono una trentina,  si poteva supporre che le altre, non di proprietà dell'Ente, fossero state costruite prima.




Ora, se la datazione del 1949 fosse stata corretta, Pennacchi sarebbe stato in errore; la riforma agraria degli anni Cinquanta inizia per l'appunto nel 1950. E' in quell'anno, con la legge 104, che l'ECLS, ente statale, diviene ERAS, ente regionale. Nel 1949 l'Ente era ancora ECLS, non aveva alcuna possibilità di occuparsi di appoderamento, ma, soprattutto, versando in condizioni economiche disastrose non avrebbe potuto impegnarsi nella costruzione di case, fossero anche pollai. Era da escludere che la data riportata nel DA del 1 aprile 1998 fosse corretta.

Inoltre, in linea strettamente teorica, vi sarebbe stato un altro, insormontabile ostacolo alla costruzione di un nucleo abitato come borgo Pala: il divieto di aggregazione dei contadini. Le progettualità dell'ECLS, che dovevano basarsi sul principio di cui la "Città Rurale" di Caracciolo era divenuta il manifesto, non avrebbero mai potuto realizzare un agglomerato urbano come Borgo Pala, con diverse case, a distanza ravvicinata, su una strada interpoderale. Era vietato.

Almeno in apparenza; ma è davvero così, Lettore? Il principio era davvero inviolabile? Oppure se lo circostanza lo permettevano o addirittura lo richiedevano, poteva essere derogato?

Perché, vedi, Lettore, se delle deroghe fossero esistite, ciò avrebbe costituito la dimostrazione del fatto che la regola dei "contadini sparsi sul territorio" fosse una questione connessa a problematiche molto diverse dalla necessità di aderire al principio della "Città Rurale".

Se poi, inoltre, le deroghe fossero state in qualche modo "mascherate" in modo da non essere riconosciute come tali, da nascondere l'esistenza di tali eccezioni, la dimostrazione diverrebbe inequivocabile

Di seguito, Lettore, cercherò di fornirTi un esempio pratico di ciò che intendo. Questa:




è una fotografia propagandistica del 1940, che vorrebbe documentare le attività dell'ECLS.

La presenza di due case coloniche adiacenti non sarebbe stata in assoluto contrasto con l'assioma del contadino isolato nello sterminato latifondo; due case non costituirebbero un "raggruppamento", ed inoltre è chiaramente visibile nell'immagine come esse sorgano ai due lati di una strada, e come tale strada sembri incrociarne un'altra.
In pratica, le due case sembrano sorgere all'incrocio di due strade interpoderali, e, sebbene fosse prescritto che le case dovessero preferibilmente essere ubicate al centro del podere, che ciò potesse accadere era contemplato nei piani dell'ECLS:




però l'inquadratura non è casuale; anzi, sembra accuratamente scelta per mostrare solo ciò che si vuole. Ma, per quanto sia stata ben studiata, non ha potuto mascherare la presenza di due elementi dissonanti.

Il primo è l'asta portabandiera; di solito, la presenza della bandiera segnalava almeno un agglomerato, quando non un vero e proprio "centro". Una bandiera presso una singola casa colonica o due case adiacenti avrebbe avuto poco senso.

Il secondo è la cappelletta.
Non è un'edicola, ma una vera "chiesetta"; e questa non può servire solo per le due case. La presenza del campanile a vela, infatti, non avrebbe alcuna utilità nel chiamare a raccolta i fedeli che dimorano in due abitazioni poste a dieci metri di distanza. Se per avvisare i fedeli vi è la necessità di una campanella, é perché il suono di questa debba raggiungerli da una certa distanza.

E’ estremamente plausibile che l’immagine sia stata “ritagliata”, stampandone solo una porzione, probabilmente allo scopo di escludere dall’inquadratura ulteriori elementi presenti nella ripresa originaria, forse perché in contrasto con quanto affermato con forza riguardo alle politiche dell’ECLS. Perché è plausibile che l’immagine sia solo una parte della ripresa originale?

Nella fotografia, l’asse verticale che divide l’immagine in due metà passa subito a sinistra dell’apice del tetto spiovente della casa, e l’angolo di campo è definito da un lato dalla finestra della casa a destra, dall’altro dalla chiesetta. La ripresa è stata effettuata puntando quasi esattamente a Nord; e come vedremo, il punto di ripresa è praticamente obbligato.

Questo




è il luogo in cui l’immagine venne ripresa, visto dall’alto (in realtà la chiesetta é ormai scomparsa, ed il luogo dove sorgeva è stato marcato); sull’immagine sono segnate le linee dell’angolo di campo: è di circa 36°, pari a quello di un modesto teleobiettivo. Il punto di ripresa, con l'approssimazione di qualche metro, è obbligato in quanto, come si intravede in corrispondenza del bordo inferiore dell’immagine, vi sono delle altre costruzioni che impediscono di incrementare ulteriormente la distanza tra il punto di ripresa e le due case.

Questa




è un’immagine ripresa dalla stessa distanza dell'originale (leggermente più a destra del punto di ripresa) con un obiettivo grandangolare, con un angolo di campo di 76°, e poi “ritagliata” in modo da ridurre il campo ai 36° circa della foto d’epoca.

Come si vede, le dimensioni delle costruzioni sulla collinetta risultano sempre maggiori, rispetto alle case, di quelle della foro d’epoca




segno che quest’ultima è stata originariamente ripresa con un obiettivo con angolo di campo paragonabile, se non maggiore; la stampa è allora un particolare della ripresa originale, che deve aver escluso più della metà dell’inquadratura. Allora, Lettore, se l’inquadratura venne tagliata, cosa si volle escludere da essa?

La situazione reale del sito è molto diversa. In realtà, le due costruzioni visibili in fotografia facevano parte di un gruppo di nove case, che sorgevano lungo la stradella la cui estremità si scorge tra le due costruzioni. Cinque case (di cui due sono quelle inquadrate) sorgevano a distanza di pochi metri all'estremità della stradella. Due erano poco più a monte, ed altre due leggermente discoste dalla strada. Ogni casa aveva un proprio fienile, separato, ma incluso in una costruzione comune per le abitazioni adiacenti. Così i fienili delle cinque case alla fine della stradella erano ospitati in un'unica costruzione




un'altra includeva i due fienili delle case discoste dalla strada




mentre per le altre due case lungo la stradella esistevano due costruzioni separate, con un singolo fienile per ognuna, che affrontava la case sul versante opposto della strada




Attualmente, le uniche case rimaste relativamente integre sono le due visibili nella foto d’epoca; delle altre sette, tre sono completamente scomparse, di due restano solo frammenti dei muri esterni




mentre le altre due sono ridotte a ruderi




sui quali comunque campeggia ancora la targa lapidea dell'ECLS




Anche la cappelletta è totalmente scomparsa (dove sorgeva sono visibili solo alcune pietre)




mentre vi sono tracce del basamento dell'asta




I fienili, invece, sono tutti in condizioni relativamente buone, conservando addirittura la colorazione originale sull'intonaco. Sulla strada è visibile ancora qualche residuo di muretto di controripa




e lungo di essa si ritrovano nove pilastrini di cemento. Poiché il numero è uguale a quello delle case, essi verosimilmente segnavano qualcosa, forse l'accesso ai rispettivi poderi. Cinque sono attualmente infissi nel terreno, un sesto è integro, ma poggiato sul piano stradale




mentre mentre gli altri tre sono danneggiati, e di essi rimangono solo frammenti. Su uno di essi è possibile vedere come la struttura consistesse in cemento armato




così come in cemento armato sono le mensole di appoggio alle rampe per raggiungere le aperture superiori dei fienili




Poiché nove case avrebbero ospitato una quarantina di persone, ciò che venne costruito configura un vero e proprio villaggio, dotato di cappella per le funzioni religiose, sul quale avrebbe sventolato una bandiera, esattamente ciò che sarebbe stato vietatissimo realizzare... qualcosa che sembrava violare tutte le regole, cemento armato compreso.

Come era possibile una cosa del genere, Lettore? Il motivo ha proprio a che vedere con la scelta dell'inquadratura, di cui parlavo prima. Se, infatti le case vengono fotografate dal punto di vista opposto




si vede come alle spalle di chi eseguiva la ripresa vi fosse la masseria; motivo per il quale l’ubicazione del punto di ripresa della foto d’epoca fosse obbligata. La masseria è attualmente diroccata, ma sebbene lo fosse anche allora, era già stata realizzata la nuova costruzione all’estremità opposta della stradella, più in alto. Così la masseria "dominava" in ogni senso, anche in quello strettamente attinente alla posizione, il piccolo agglomerato urbano. In caso risulta particolarmente evidente come nel caso in cui esisteva un controllo, la regola del contadino isolato sul territorio non aveva più motivo di essere. La regola non aveva nulla a che vedere con la necessità che il contadino non si spostasse; l'importante era che non entrasse in stretto contatto con gli altri contadini senza che nessuno li controllasse

Se quanto mostrato adesso è un esempio di come una deroga alla regola sia stata occultata, vi sono esempi, molto più espliciti e manifesti, che mostrano come la violazione della regola potesse essere esplicita e manifesta


Ma per quel che riguarda borgo Pala, la regola non era attinente; le case non hanno nulla a che a fare né con l’ECLS, e neppure con il 1949. Esse fanno capo al piano di ripartizione 15b, il cui borgo di servizio sarebbe stato Borgo San Giovanni Verde e mi sono servite per introdurre l’argomento.

A prescindere da borgo Pala, ad Antonio Pennacchi sarà rimasta comunque un’incertezza: l’errore di Vincenzo Ullo consisteva nel nome o nella località? Detto in altri termini; Vincenzo Ullo si riferiva davvero ad un villaggio chiamato Borgo Littorio e lo collocava, sbagliando, a Petralia, o si riferiva ad un villaggio a Petralia e lo chiamava, sbagliando, Borgo Littorio?
A cosa Ullo intendesse riferirsi quando menziona Borgo Littorio verrà definitivamente chiarito nel post sui borghi residenziali. Ciò che rimane inequivocabile è come egli non si fosse comunque curato più di tanto della correttezza delle sue affermazioni; avrà raccattato qua e là qualche informazione, per mettere insieme alla bell’e meglio il suo articolo propagandistico.  

Questa inesattezza, questa esposizione di dati ottenuti “per sentito dire”, si rivela anche nel secondo dei problemi irrisolti sollevati nel viaggio di Pennacchi: Poggio Benito. Ma di questo parlerò dopo.  Sempre a proposito di Poggio Benito, però, anche ad Antonio Pennacchi viene in mente che Vincenzo Ullo possa essere stato approssimativo per  motivi di propaganda, o quanto meno leggero:: “ […] magari gli hanno fatto vedere un progetto dicendogli «Lo stiamo per fare», e lui ha scritto: «Fatto», e invece non si è fatto più niente. Proprio come Mussolinia di Caltagirone”. Lettore in un certo senso le cose, nel caso specifico, andarono proprio in questo modo. Anche se non credo che la vicenda sia analoga a quella di Mussolinia di Caltagirone; ma ne parleremo dopo.  

Adesso, parliamo proprio di Mussolinia


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