sabato 22 dicembre 2012

LA VIA DEI BORGHI.4: Fascismo e Proletariato



Da questo punto in poi diviene difficile tentare di entrare nel merito di ciò che è successo. Diviene difficile persino descrivere ciò che è successo. Ciò perché chi dovrebbe riportare i fatti storici riporta invece le proprie opinioni politiche. E’ un atteggiamento che già è palpabile leggendo la storia del Regno delle Due Sicilie; esistono infatti ancora i nostalgici della monarchia borbonica, che spesso arrivano a sostenere l’insostenibile per contrapporsi a chi invece vedrebbe nell’unità d’Italia la degna conclusione del Risorgimento italiano. Ma nel caso del Fascismo tali atteggiamenti contrapposti si estremizzano: chi scrive di solito o è nostalgico oppure è antifascista. Gli eventi vengono descritti, ma o vengono magnificati o minimizzati, comunque sempre distorti. Da un lato persino atteggiamenti e realizzazioni negative sono espressione di determinazione e risolutezza, dall’altro anche le azioni più limpide e brillanti sono manifestazioni propagandistiche. Per alcuni il deprecato Ventennio è stato l’unico periodo in cui sono state realizzate importanti opere pubbliche in Sicilia; per altri, queste sono state inutili o insufficienti. O hanno costituito solo una forma di propaganda. O hanno chiaramente lasciato trasparire solo una presa d’atto dell’esistenza della questione meridionale,  quando non addirittura la volontà di mantenerla: la Sicilia era una regione di serie B, una sorta di colonia in territorio nazionale, e tale doveva rimanere. Così è stata interpretata da alcuni la tipologia degli interventi realizzati sull’isola. Sono indubbiamente state realizzate diverse linee ferroviarie; ma erano a scartamento ridotto, come quelle delle colonie. Sono stati costruiti borghi e villaggi in gran numero; proprio come nelle colonie. E mentre il Nord Italia si industrializzava, in Sicilia si cercava di favorire solo lo sviluppo del l’agricoltura; come nelle colonie.

Probabilmente, Lettore, come spesso accade in questi casi, la verità sta nel mezzo. Il Fascismo ha indubbiamente ereditato la “questione meridionale”,  ed in seno ad essa un’inveterata, plurisecolare, “questione siciliana”, comprensiva di mafia. E l’ha considerata. Ma come accaduto ai governi precedenti, dall’unità d’Italia ed anche a tutti quelli successivi fino a quelli contemporanei, il Fascismo non governava la Sicilia: governava l’Italia. Tutta, e contemporaneamente. E la Sicilia era indubbiamente sottosviluppata. E’ possibile che si sia adottato inizialmente un piano d’azione unico, già delineato nelle linee generali, rapido e, nelle intenzioni dei suoi ideatori, efficace, da adottare nelle zone sottosviluppate per “metterle al passo” con quelle più evolute. Che tali zone si trovassero entro i confini nazionali, o fossero paesi “colonizzati”, poco importava. Ma che qualcosa di realmente attivo e fattivo si sia poi intrapreso per la Sicilia è indubbio. Non mi sento però assolutamente di condividere il concetto dello scrittore Antonio Pennacchi riguardo alla “dittatura del proletariato”. Durante il Fascismo vennero sicuramente gettate le basi della rete ferroviaria italiana (non solo siciliana); ma altrettanto sicuramente vennero licenziati più di trentamila ferrovieri (avvalendosi D.L. 143 e 153 del 1923 e 172 del 1924), mentre per quelli rimasti in servizio era stato abolito il diritto all’assistenza sanitaria (R.D. 2918 del 1923), era stato incrementato il numero delle ore di lavoro, e ridotto lo stipendio, stipendio invece incrementato per i quadri più alti (una sorta di governo Monti, insomma). Ed anche i ferrovieri facevano parte del proletariato; il regime considerava le ferrovie, non i ferrovieri. Sicuramente fu migliore l’atteggiamento nei confronti dei minatori, con la fondazione di (almeno) quattro villaggi minerari, ultimati dopo la guerra, e di un "Ufficio per la vendita dello zolfo italiano" , minatori che però altrettanto sicuramente non ricevettero un’attenzione pari a quella di cui sembravano degni gli agricoltori; quindi, semmai, sarebbe stata non una “dittatura del proletariato” ma una “dittatura dei contadini”.  E d’altra parte,  ciò viene riconosciuto anche dallo stesso Antonio Pennacchi che dopo aver parlato di “dittatura del proletariato” qualche pagina più avanti aggiusta il tiro, parlando di “dittatura del proletariato contadino”.

Tuttavia Lettore, a mio parere, neanche questa può essere considerata una definizione realistica. I contadini erano soggetti passivi; e sebbene la memoria collettiva rurale conservi un ricordo quasi idilliaco del fascismo, in realtà essi vennero coinvolti loro malgrado. Perché, come per i ferrovieri, l’attenzione di cui parlo poche righe sopra in realtà non era rivolta agli agricoltori; era rivolta all’agricoltura.

Che il Duce mostrasse un particolare trasporto per tutto quel che riguardasse la vita rurale sembra fuor di dubbio. E’ chiaro che la propaganda di regime richiedeva la presenza della sua figura tra il popolo, ma nella  partecipazione ad eventi legati al mondo proletario egli sembra comunque prediligere quelli legati alla vita nei campi. 

Ma ciò che sembra potersi dedurre da certi fatti, è che la predilezione fosse rivolta al mondo rurale inteso come modello di società (o di una parte fondamentale di essa) e non alle persone che di tale mondo facevano parte. La città giardino come prototipo per nuove città di fondazione, le pressioni esercitate con ogni mezzo per spingere i cittadini all’esodo, l’urbanesimo basato su piccoli centri, i tentativi di riconvertire forzosamente altre classi di lavoratori in agricoltori, sono fatti che, insieme all’anti individualismo proprio della filosofia fascista, puntano tutti in questa direzione. E’ inoltre verosimile che questa visione delle cose avesse delle motivazioni in termini di politica economica. Le attività rurali sono infatti l’unica forma di primario suscettibile di incremento con il lavoro. Non è possibile incrementare i giacimenti di combustibile o di minerali, o le risorse naturali della pesca (almeno fino a poco tempo fa) a disposizione di una nazione. Ma agricoltura e pastorizia sono risorse suscettibili  di venire notevolmente incrementate dall’attività umana esplicata su di esse. L’esempio pratico più palese è forse quello della “battaglia del grano”, intendendo con tale locuzione la pianificazione di una serie di attività volte ad incrementare la produzione del grano per sottrarre l’Italia all’onere dell’importazione del cereale, che allora ammontava mediamente a 24 milioni di quintali all’anno. Fu annunziata da Mussolini il 25 giugno 1925, e nel 1931 venne decretata la "vittoria del grano", con una produzione nazionale di 81 milioni di quintali ed un’importazione di poco superiore ai quattro milioni di quintali annui. Sicuramente non si raggiunse l’azzeramento delle importazioni, ma altrettanto sicuramente la produzione fu superiore alla somma delle quantità prodotte più quelle importate negli anni che precedettero la “battaglia”.

Ciò che appare comunque evidente è che la suddetta predilezione fosse comunque preesistente alle cariche ricoperte poi in seno al  governo. E ciò che è ugualmente evidente è che Mussolini, una volta giunto al potere, fu determinato nel realizzare il processo di ruralizzazione, inteso come processo opposto all’urbanizzazione.



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